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Sentenza

Imposte sulle donazioni: legittima l’esclusione degli affini dal novero dei sogg...
Imposte sulle donazioni: legittima l’esclusione degli affini dal novero dei soggetti aventi diritto all’esenzione.
Corte cost., Sent., (ud. 12/02/2020) 13-03-2020, n. 54
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana
SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
Svolgimento del processo
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, della L. 18 ottobre 2001, n.
383 (Primi interventi per il rilancio dell'economia), promosso dalla Commissione tributaria
regionale del Molise nel procedimento vertente tra P. D.L.F. e l'Agenzia delle Entrate,
con ordinanza dell'11 marzo 2019, iscritta al n. 122 del registro ordinanze 2019 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2019.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020 il Giudice relatore Luca Antonini;
deliberato nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020.
1.- Con ordinanza deliberata il 21 settembre 2015 e depositata l'11 marzo 2019, la Commissione
tributaria regionale (CTR) del Molise ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, e 31 della
Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, della L. 18 ottobre
2001, n. 383 (Primi interventi per il rilancio dell'economia), nella parte in cui non include gli affini
nel novero dei soggetti per i quali è escluso il pagamento dell'imposta da esso disciplinata.
La disposizione censurata, applicabile ratione temporis nel giudizio principale, prevede che: a) "i
trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi, compresa la rinuncia pura e
semplice agli stessi, fatti a favore di soggetti diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli
altri parenti fino al quarto grado, sono soggetti alle imposte sui trasferimenti ordinariamente
applicabili per le operazioni a titolo oneroso, se il valore della quota spettante a ciascun
beneficiario è superiore all'importo di 350 milioni di lire" (primo periodo); b) "in questa ipotesi
si applicano, sulla parte di valore della quota che supera l'importo di 350 milioni di lire, le aliquote
previste per il corrispondente atto di trasferimento a titolo oneroso" (secondo periodo).
2.- Le questioni sono sorte nell'ambito di un giudizio che trae origine dal ricorso proposto dal
donatario avverso l'avviso di liquidazione dell'imposta complementare di registro, determinata
dall'Agenzia delle entrate, al netto della suddetta franchigia, in misura proporzionale all'importo
della donazione di Euro 7.830.000,00, stipulata il 22 giugno 2006.
Secondo quanto riferito dal rimettente, l'impugnato avviso di liquidazione era stato adottato
perché tra il donante e il donatario intercorreva un rapporto di affinità di terzo grado e non di
parentela. La Commissione tributaria provinciale di Campobasso aveva rigettato il ricorso - inteso
ad ottenere l'estensione dell'esclusione dal pagamento dell'imposta prevista per le donazioni tra
parenti -, ribadendo le motivazioni dell'avviso. Il contribuente aveva quindi appellato la sentenza
di primo grado davanti alla CTR del Molise.
3.- In punto di rilevanza, il giudice a quo in primo luogo osserva che l'atto di donazione oggetto
dell'avviso di liquidazione risale al 22 giugno 2006 ed è stato registrato il 28 giugno 2006, con
la conseguenza che la legittimità del provvedimento impositivo deve essere vagliata alla luce del
censurato art. 13, comma 2, della L. n. 383 del 2001.
La successiva abrogazione di questa norma, disposta dall'art. 2, comma 52, lettera d), del D.L.
3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con
modificazioni, nella L. 24 novembre 2006, n. 286, ha infatti effetto, secondo quanto previsto dal
successivo comma 53 del medesimo art. 2 D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, soltanto "per gli atti
pubblici formati ... dalla data di entrata in vigore della legge di conversione" dello stesso D.L. n.
262 del 2006, ovvero dal 29 novembre 2006.
In secondo luogo, il Collegio rimettente rileva che il rapporto intercorrente tra il donante e
l'appellante donatario è di affinità e non di parentela, sicché il contribuente, sulla scorta del
tenore testuale della denunciata disposizione, non avrebbe diritto al "beneficio" da questa
previsto.
3.1.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTR ritiene che l'art. 13, comma 2, della L. n.
383 del 2001 arrechi un vulnus, innanzitutto, all'art. 3 Cost., in relazione al principio di
eguaglianza.
L'omessa inclusione degli affini nel novero dei soggetti che non sono obbligati al pagamento
dell'imposta di cui alla norma censurata determinerebbe, infatti, una ingiustificata
discriminazione e una irragionevole disparità di trattamento rispetto ai parenti.
L'irragionevolezza sarebbe apprezzabile anche alla luce di "alcuni elementi ordinamentali" che
riserverebbero un trattamento identico, o comunque omogeneo, ai parenti e agli affini e
deporrebbero, pertanto, nel senso della loro "necessaria parificazione".
Al riguardo, il giudice a quo argomenta, innanzitutto, richiamando l'art. 7, comma 1, lettera b),
del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti
l'imposta sulle successioni e donazioni), come modificato dall'art. 69, comma 1, lettera c),
della L. 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale), il quale prevedeva - prima della
sua abrogazione − che l'imposta sulle successioni e donazioni fosse determinata nella stessa
misura percentuale sia per i parenti in linea collaterale fino al quarto grado, sia per gli affini in
linea retta e per quelli in linea collaterale fino al terzo grado: disposizione, questa, che sarebbe
significativa della volontà del legislatore di "accomunare" i parenti e gli affini.
Quindi, la CTR del Molise elenca una nutrita serie di previsioni normative parimenti sintomatiche,
a suo avviso, della dedotta necessaria identità di trattamento tra le due categorie di familiari
(parenti e affini).
Tali sarebbero, segnatamente, le norme recate dall'art. 87, quarto comma, del codice civile, che
include gli affini tra i soggetti per quali è vietato unirsi reciprocamente in matrimonio; dall'art.
433, quinto comma (recte: primo comma, numeri 4 e 5), cod. civ., che impone agli affini, accanto
al coniuge e a determinati parenti, l'obbligo di prestare gli alimenti; dall'art. 230-bis, terzo
comma, cod. civ., che, nel disciplinare l'impresa familiare, considera anche gli affini, appunto,
come familiari; dagli artt. 348 e 417 cod. civ., i quali, rispettivamente, prevedono che gli affini
possono essere scelti per rivestire la figura di tutore e sono legittimati a proporre istanza di
interdizione o di inabilitazione; dall'art. 2399 cod. civ., che pone una causa d'ineleggibilità e di
decadenza alla carica di sindaco sia per gli affini che per i parenti degli amministratori della
società per azioni, o di società da questa controllate, nonché di quelle che la controllano e di
quelle sottoposte a comune controllo; dall'art. 51 del codice di procedura civile, che disciplina le
ipotesi di astensione del giudice; dall'art. 33, comma 3, della L. 5 febbraio 1992, n. 104 (Leggequadro
per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), il quale
riconosce anche agli affini il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito per
l'assistenza al familiare portatore di handicap in situazione di gravità; infine,
dall'art. 74 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di
occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n. 30), che, con specifico
riguardo alle attività agricole, esclude, a determinate condizioni, la configurabilità di un rapporto
di lavoro autonomo o subordinato in relazione alle prestazioni svolte tanto dai parenti quanto
dagli affini sino al quarto grado.
3.1.1.- Ad avviso del rimettente, risulterebbero violati anche gli artt. 29 e 31 Cost., "posti in
relazione" all'art. 2 Cost., "in considerazione del favore espresso dalla Carta Costituzionale nei
confronti della famiglia e dei rapporti che ivi si esplicano".
I precetti di cui agli artt. 29 e 31 Cost. appresterebbero difatti una "particolare e specifica tutela"
dell'intera collettività familiare che, alla luce delle considerazioni dianzi svolte, dovrebbe
comprendere non solo i parenti ma anche gli affini.
3.1.2.- A conforto degli assunti posti a fondamento delle questioni sollevate, la CTR richiama,
infine, la sentenza n. 203 del 2013, con la quale questa Corte ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 42, comma 5, del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma
dell'art. 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non includeva nel novero dei soggetti
legittimati a fruire del congedo da esso previsto, e alle condizioni ivi stabilite, i parenti e gli affini
entro il terzo grado conviventi con il familiare versante in situazione di grave disabilità, in caso
di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla
disposizione censurata, idonei a prendersi cura della persona disabile.
4.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque,
infondate.
4.1.- L'eccezione d'inammissibilità è argomentata con l'asserito difetto di motivazione della non
manifesta infondatezza.
Sarebbe stata, in particolare, omessa qualsiasi motivazione sulle ragioni del contrasto, affermato
in via meramente assertiva, tra la norma censurata e gli artt. 2, 29 e 31 Cost.
Analoga carenza minerebbe la prospettata compromissione del principio di eguaglianza di
cui all'art. 3 Cost. Il Collegio rimettente, pur avendo elencato diverse disposizioni dalle quali
intende desumere l'uniformità di trattamento tra le due categorie di familiari, non avrebbe,
infatti, addotto alcuno specifico argomento diretto a illustrare l'irragionevolezza della diversa
disciplina che questa norma riserva agli affini rispetto ai parenti. Né sarebbe stata effettuata
alcuna analisi in ordine agli interessi tutelati, tanto dalla disposizione denunciata quanto dalle
disposizioni dalle quali sarebbe, in tesi, deducibile la necessità della parità di trattamento tra i
parenti e gli affini.
4.2.- Nel merito, poi, l'Avvocatura generale ritiene insussistente la denunciata violazione dell'art.
3 Cost., dovendo escludersi che la categoria degli affini sia omogenea, e tanto meno identica, a
quella dei parenti.
Il vincolo di affinità lega, infatti, il coniuge ai parenti dell'altro coniuge, sicché sarebbe meno
"solido e stabile" di quello di parentela, che lega invece soggetti discendenti dalla stessa persona.
Del resto, aggiunge la difesa statale, il legislatore ha previsto una disciplina differenziata finanche
nell'ambito della stessa parentela, dal momento che nella materia successoria "i parenti più
prossimi escludono quelli di grado più lontano".
Anche le numerose fattispecie indicate nell'ordinanza di rimessione sarebbero del tutto
eterogenee, sia tra loro stesse, sia rispetto alla norma censurata.
Dovrebbe quindi escludersi che la discrezionalità di cui gode il legislatore si sia tradotta, nella
specie, in una scelta irragionevole.
4.2.1.- La disposizione denunciata non contrasterebbe, sempre a parere dell'Avvocatura
generale, nemmeno con l'art. 29 Cost.
Da un lato, infatti, nell'ordinamento sarebbero ravvisabili due nozioni di famiglia: quella
"allargata", che comprende i parenti e gli affini, e quella "nucleare", alla quale appartengono
soltanto i coniugi e i figli. Dall'altro, la scelta di tutelare in modo più o meno ampio l'uno o l'altro
tipo di famiglia nonché i soggetti che ne fanno parte sarebbe rimessa alla discrezionalità del
legislatore, particolarmente ampia nella materia tributaria e, segnatamente, in quella delle
agevolazioni e dei benefici tributari.
Conclude nel senso che "il concetto di famiglia" non potrebbe essere ricondotto, contrariamente
a quanto sostenuto dalla CTR, "all'interno di un perimetro prestabilito".
Motivi della decisione
1.- La Commissione tributaria regionale (CTR) del Molise dubita, in riferimento agli artt. 2, 3,
29, e 31 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, della L. 18
ottobre 2001, n. 383 (Primi interventi per il rilancio dell'economia), nella parte in cui non include
gli affini nel novero dei soggetti per i quali è escluso il pagamento dell'imposta da esso
disciplinata.
La disposizione censurata, applicabile ratione temporis nel giudizio principale, prevede che: a) "i
trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi, compresa la rinuncia pura e
semplice agli stessi, fatti a favore di soggetti diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli
altri parenti fino al quarto grado, sono soggetti alle imposte sui trasferimenti ordinariamente
applicabili per le operazioni a titolo oneroso, se il valore della quota spettante a ciascun
beneficiario è superiore all'importo di 350 milioni di lire" (primo periodo); b) "in questa ipotesi
si applicano, sulla parte di valore della quota che supera l'importo di 350 milioni di lire, le aliquote
previste per il corrispondente atto di trasferimento a titolo oneroso" (secondo periodo).
Ad avviso del Collegio rimettente, la disposizione censurata lederebbe, in primo luogo, l'art. 3
Cost., in relazione al principio di eguaglianza, dal momento che la disciplina da essa dettata per
gli affini sarebbe ingiustificatamente diversa da quella riservata ai parenti.
Risulterebbero, inoltre, violati gli artt. 29 e 31 Cost., "posti in relazione" all'art. 2 Cost.
2.- Occorre qui incidentalmente rilevare che il notevole intervallo temporale tra la data di
deliberazione dell'ordinanza di rimessione (21 settembre 2015) e quella della sua pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (4 settembre 2019) è dovuto al rilevante ritardo nel
deposito dell'ordinanza nella segreteria della CTR (avvenuto l'11 marzo 2019), pervenuta a
questa Corte il 27 giugno 2019 e, quindi, trasmessa il giorno successivo per la pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale.
3.- L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito preliminarmente l'inammissibilità delle
questioni sollevate per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. La CTR molisana
avrebbe difatti omesso qualsiasi argomentazione in merito alle ragioni del contrasto tra la norma
denunciata e gli artt. 2, 29 e 31 Cost.
L'ordinanza di rimessione sarebbe, d'altra parte, affetta da analoga carenza anche per quanto
concerne la denunciata lesione del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., non avendo il
Collegio rimettente addotto argomenti sufficienti per illustrare l'irragionevolezza del differente
trattamento riservato dalla disposizione censurata agli affini rispetto ai parenti.
3.1.- L'eccezione sollevata in relazione alla questione afferente alla violazione dell'art. 3
Cost. non è fondata, giacché dalle deduzioni svolte dal giudice a quo emergono chiaramente le
ragioni che lo inducono a dubitare della legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, della L.
n. 383 del 2001.
A parere della CTR del Molise, questa norma contrasterebbe, infatti, con il principio di
eguaglianza, in quanto - nel prevedere che, oltre al coniuge, soltanto i parenti in linea retta e gli
altri parenti fino al quarto grado non siano obbligati al pagamento dell'imposta da essa introdotta
- determinerebbe una disparità di trattamento del tutto ingiustificata rispetto agli affini. Con la
riserva a questi ultimi di un trattamento impositivo deteriore rispetto a quello previsto per i
parenti, malgrado l'omogeneità delle due categorie di familiari, il legislatore avrebbe quindi
operato una distinzione irragionevole. L'irragionevolezza di tale diversificazione emergerebbe
anche alla luce della disciplina recata da una pluralità di norme che - riservando un trattamento
identico, o comunque uniforme, ai suddetti familiari - esprimerebbero un principio di "necessaria
parificazione" tra gli stessi.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, la questione supera il vaglio di ammissibilità,
dal momento che il giudizio negativo espresso dal giudice rimettente circa la compatibilità tra il
censurato art. 13, comma 2, della L. n. 383 del 2001 e l'art. 3 Cost. è stato compiutamente
motivato. Resta, ovviamente, impregiudicato il merito della questione.
3.2.- Risulta, invece, evidente l'inammissibilità della questione sollevata in riferimento agli artt.
29 e 31 Cost., "posti in relazione" all'art. 2 Cost.
Il giudice a quo si limita, infatti, ad affermare che l'asserito vulnus sarebbe apprezzabile "in
considerazione del favore espresso dalla Carta Costituzionale nei confronti della famiglia e dei
rapporti che ivi si esplicano", aggiungendo poi che gli artt. 29 e 31 Cost. "apprestano alla famiglia
una particolare e specifica tutela di rango costituzionale, nell'ambito della quale sono riconosciuti
e tutelati i diritti propri della collettività familiare che non è, e non può essere considerata, come
ristretta ai soli parenti, laddove in altri settori ordinamentali il concetto di famiglia viene esteso
anche agli affini".
È palese il carattere generico e meramente assertivo della prospettazione della CTR, che non
consente di comprendere le ragioni per cui l'omissione censurata si porrebbe in contrasto con gli
evocati parametri costituzionali.
Il rimettente, infatti, richiama cumulativamente e genericamente gli artt. 2, 29 e 31 Cost., senza
indicare alcuno specifico nesso tra questi parametri e la norma denunciata, omettendo anche di
individuare quale precetto costituzionale sarebbe stato in concreto leso.
È, d'altro canto, inidoneo a colmare le evidenziate carenze il richiamo, contenuto nell'ordinanza
di rimessione, alla sentenza n. 203 del 2013, con la quale questa Corte ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 42, comma 5, del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma
dell'articolo 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui, al ricorrere di determinate
condizioni, non includeva tra i soggetti legittimati a fruire del congedo da esso previsto, anche i
parenti e gli affini entro il terzo grado conviventi con il familiare che versa in situazione di grave
disabilità. Il giudice a quo non chiarisce, infatti, la connessione tra l'essenziale ruolo - valorizzato
nella sentenza citata e garantito dalla fruizione del diritto al menzionato congedo - che la famiglia
svolge al fine di assicurare "una tutela piena dei soggetti deboli" e la denunciata omissione.
Il descritto difetto motivazionale sulla non manifesta infondatezza comporta l'inammissibilità
delle questioni in esame, in quanto prive "di un'adeguata ed autonoma illustrazione delle ragioni
per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale
evocato ..." (ex plurimis, sentenza n. 33 del 2019).
4.- Nel merito, la questione inerente alla violazione dell'art. 3 Cost. non è fondata.
4.1.- Come dianzi chiarito, l'art. 13, comma 2, della L. n. 383 del 2001 è censurato nella parte
in cui non include gli affini nel novero dei soggetti che non sono obbligati al pagamento
dell'imposta da esso prevista per i trasferimenti per donazione o altra liberalità tra vivi.
Tale disposizione violerebbe il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., dal momento che la
disciplina dettata per gli affini sarebbe ingiustificatamente diversa da quella prevista per i
parenti, esclusi dalla tassazione in relazione alla medesima fattispecie, nonostante l'omogeneità
tra le due categorie di familiari. A supporto dell'asserita uniformità, il rimettente indica quali
tertia comparationis una nutrita serie di previsioni normative - segnatamente contenute
nell'art. 7, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico
delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni), così come modificato
dall'art. 69 della L. 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale); negli artt. 87, quarto
comma, 230-bis, terzo comma, 348, 417, 433, quinto comma (recte: primo comma, numeri 4 e
5), e 2399 del codice civile; nell'art. 51 del codice di procedura civile; nell'art. 33, comma 3,
della L. 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate); infine, nell'art. 74 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n.
276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14
febbraio 2003, n. 30) - dalle quali sarebbe deducibile un principio di "necessaria parificazione"
tra i parenti e gli affini.
4.2.- Al fine di inquadrare correttamente la prospettata questione è opportuno premettere che
la norma censurata si inserisce all'interno di un intervento normativo che ha costituito una isolata
parentesi nell'ambito dello sviluppo dell'ordinamento tributario.
Il comma 1 dell'art. 13 della L. n. 383 del 2001 ha infatti disposto che l'imposta sulle successioni
e donazioni di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, così come modificata dall'art. 69 della L. n. 342 del
2000, "è soppressa" e il comma 2 del medesimo articolo 13 L. n. 383 del 2001 ha limitato
l'imposizione ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altre liberalità tra vivi solo ove
siano disposti a favore dei parenti in linea collaterale oltre il quarto grado, degli affini e degli
estranei.
Si è trattato di un cambiamento radicale rispetto al sistema dell'imposta sulle successioni e
donazioni: uno dei tributi patrimoniali (in senso lato) più antichi del nostro ordinamento
tributario, fondato su ragioni redistributive e applicabile a carico di qualsiasi beneficiario.
Tale intervento normativo non si è però consolidato all'interno dell'ordinamento. Con l'art. 2,
commi da 47 a 54, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e
finanziaria), così come sostituito in sede di conversione dalla L. 24 novembre 2006, n. 286, il
legislatore, per un verso, ha abrogato il suddetto art. 13 L. n. 383 del 2001 e, per l'altro, ha
sostanzialmente "reintrodotto" la soppressa imposta sulle successioni e donazioni, che è
giustificata dall'arricchimento dell'erede o del beneficiario e quindi in ragione della capacità
contributiva di questi ultimi, che risulta nuova e autonoma anche rispetto alle imposte a suo
tempo versate dal dante causa.
4.3.- Va peraltro sottolineato che nel descritto sviluppo normativo l'imposizione è sempre
risultata strutturata in modo graduato in rapporto alla prossimità familiare tra il disponente e il
beneficiario, senza che a ciò abbia fatto eccezione nemmeno la riforma del 2001: nell'imposta
sulle successioni e donazioni attraverso aliquote differenziate; in quella del 2001 con la selezione
dei soggetti passivi.
Infatti, il censurato comma 2 dell'art. 13 della L. n. 383 del 2001 ha individuato nei parenti in
linea collaterale oltre il quarto grado, negli affini e negli estranei i soggetti passivi rispetto ai
quali i trasferimenti di beni e diritti per donazioni e altre liberalità tra vivi, eccedenti i 350 milioni
di lire, devono considerarsi imponibili nella stessa misura stabilita per gli atti traslativi a titolo
oneroso.
4.4.- È questa discriminazione soggettiva (segnatamente tra gli affini e i parenti esclusi
dall'imposizione) a costituire oggetto dell'odierna questione di costituzionalità, poiché il
rimettente assume che essa "non trova alcuna giustificazione se riguardata alla luce di alcuni
elementi ordinamentali".
La norma è dunque indubbiata nella parte in cui non include gli affini, equiparandoli ai parenti,
nel novero dei soggetti non tenuti al pagamento dell'imposta.
4.5.- Tanto premesso, la descritta selezione dei soggetti passivi, in quanto coerente con il
presupposto, rientra nell'esercizio del potere discrezionale del legislatore tributario (su tale
discrezionalità, ex multis, sentenze n. 288 del 2019 e n. 269 del 2017), che ha costantemente
graduato, come si è visto, l'imposizione in ragione della prossimità familiare tra il disponente e
il beneficiario. La selezione dei soggetti passivi trova inoltre, nel caso di specie, una non
irragionevole giustificazione anche nell'esigenza di limitare l'impatto finanziario della riforma del
2001, come risulta dai lavori preparatori.
Dagli stessi, infatti, emerge che tale riforma non nutriva - a differenza della prospettiva da cui
sembra muovere il rimettente - alcuna ambizione di qualificarsi come attuativa della tutela
costituzionale della famiglia: nessuno specifico riferimento a tale valore viene mai evocato; si
rimarcano piuttosto altre e più generiche finalità, come quelle della semplificazione e del rilancio
dell'economia.
Il che appare comprensibile, perché l'indistinta esclusione, senza alcun limite di importo, del
coniuge, dei parenti in linea retta e degli altri parenti in linea collaterale fino al quarto grado,
dall'imposizione delle donazioni e delle liberalità risulta difficilmente inquadrabile nella struttura
dei principali precetti costituzionali (artt. da 29 a 31 Cost.) posti a tutela della famiglia e, in
particolare, delle situazioni di potenziale fragilità in essa ravvisabili.
Non risulta, dunque, superato il confine della non manifesta irragionevolezza, nel cui àmbito
soltanto può legittimamente esercitarsi la discrezionalità del legislatore: il fatto che la norma
abbia inteso selezionare i soggetti passivi del prelievo in esame in ragione della prossimità dei
vincoli familiari, individuando il grado e i limiti di tale prossimità e tenendo adeguatamente conto
dell'impatto finanziario di tale selezione, esclude l'arbitrarietà della disciplina censurata (in
generale sul confine della non manifesta irragionevolezza, sentenze n. 153 del 2017 e n. 111 del
2016).
4.6.- Quanto all'assunto del rimettente secondo cui diversi "elementi ordinamentali"
dimostrerebbero l'omogeneità tra parenti e affini, è sufficiente qui rilevare che i tertia
comparationis indicati nell'ordinanza non sono adeguati, essendo considerati in modo del tutto
decontestualizzato dagli istituti regolati e dalle specifiche rationes a essi sottesi.
Proprio l'esame delle numerose disposizioni indicate a raffronto dal giudice a quo rende, anzi,
evidente la mancanza di elementi che dimostrino la necessità sistematica di garantire una
ricorrente e generalizzata omogeneità di trattamento tra parenti e affini dalla quale si possa
dedurre la rottura della coerenza dell'ordinamento ad opera della norma censurata.
4.6.1.- In particolare, l'art. 87, quarto comma, cod. civ. non effettua quella piena assimilazione
sostenuta dal rimettente, ma attua, al contrario, una differenziazione normativa in ragione sia
della linea che del grado: basti considerare che mentre per gli affini in linea collaterale in secondo
grado il divieto di contrarre matrimonio può essere rimosso dal tribunale, non altrettanto è
previsto per i parenti in linea collaterale nel medesimo grado, essendo ciò consentito soltanto
per quelli in linea collaterale in terzo grado.
Anche l'art. 230-bis cod. civ. − parimenti richiamato dal rimettente −, pur considerando, con
riguardo all'impresa familiare, ambedue le categorie di parenti e affini, comunque le distingue
nel grado, confermando ulteriormente la loro eterogeneità.
L'evocato art. 74 del D.Lgs. n. 276 del 2003 è poi relativo ad aspetti privatistici e previdenziali
che riguardano le prestazioni di lavoro accessorio, senza che la norma possa estendersi ad "ogni
rilievo lavoristico" (sentenza n. 50 del 2005): il che denota un elevato grado di settorialità della
disciplina in parola e consente di escludere che essa possa essere assunta a elemento
ordinamentale da cui desumere un principio generale.
Anche gli evocati artt. 348, 417 e 433, quinto comma (recte: primo comma, numeri 4 e 5), cod.
civ., non solo non rafforzano, ma indeboliscono l'assunto del rimettente, giacché confermano la
scelta legislativa di un trattamento non del tutto equiparato dei parenti e degli affini. Gli istituti
della tutela, dell'interdizione, dell'inabilitazione e dell'obbligo alimentare oggetto di tali norme
rispondono, infatti, a uno scopo ben specifico e unitariamente riconducibile a un sistema
efficiente di tutela di soggetti "deboli": essi nulla hanno a che vedere con gli interessi sottesi alla
norma ambita in via di addizione, sicché nemmeno dalle disposizioni in discorso è inferibile il
principio di necessaria parità assunto dal giudice a quo a fondamento della dedotta
violazione dell'art. 3 Cost.
Analogamente, l'art. 33, comma 3, della L. n. 104 del 1992, se disciplina in modo effettivamente
uniforme i parenti e gli affini, nondimeno riguarda l'assistenza alle persone disabili ed è, pertanto,
riconducibile alla predetta ratio di protezione di persone che versano in un particolare stato di
fragilità: tanto dimostra che il legislatore ha parificato i parenti e gli affini non in forza di un
principio ordinamentale di necessaria equiparazione degli stessi, ma in considerazione dei
peculiari interessi da tutelare, presidiati a livello costituzionale e non ravvisabili invece nella
disposizione oggetto dell'odierno scrutinio.
Nella medesima direzione conducono le argomentazioni poste a fondamento della sentenza di
questa Corte n. 203 del 2013, espressamente menzionata invece dal rimettente a sostegno della
non manifesta infondatezza delle censure. Con tale pronuncia è stata dichiarata l'illegittimità
costituzionale dell'art. 42, comma 5, del D.Lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui, al ricorrere
di determinate condizioni, non includeva, nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo
straordinario per la cura e l'assistenza di persona in situazione di disabilità grave, il parente o
l'affine entro il terzo grado convivente. Anche l'addizione operata in siffatta occasione da questa
Corte, risponde, infatti, come dianzi chiarito, alla stringente e specifica esigenza di tutela sottesa
all'istituto del congedo, la cui automatica applicazione ad altri ambiti ordinamentali non pare
dunque né necessitata né, di per sé, ragionevole.
Nemmeno pertinenti, infine, risultano gli artt. 2399 cod. civ. e l'art. 51 cod. proc. civ., richiamati
dalla CTR. In particolare, la prima disposizione individua alcune categorie di soggetti, tra i quali
i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società (o delle società da
questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo),
che non possono ricoprire la carica di sindaco, al fine di preservare tale delicato incarico da
potenziali condizionamenti da parte di familiari più stretti che rivestono la carica di
amministratore. La seconda mira a garantire il pieno rispetto del canone di imparzialità del
giudice per assicurare il corretto esercizio della funzione giurisdizionale.
Si tratta, dunque, anche in questo caso, di previsioni in cui la scelta legislativa di equiparazione
del parente e dell'affine non discende dall'applicazione di un principio generale di assoluta e
necessaria parificazione, in ogni ipotesi, del trattamento giuridico di parenti e affini, ma dalla
concreta valutazione dell'interesse sotteso alla specifica disciplina e dal conseguente obiettivo di
impedire lo sviamento dal corretto esercizio di determinate funzioni.
4.6.2.- Del resto, neppure nella legislazione tributaria è rinvenibile una nozione predeterminata
e generale di famiglia (si pensi, tra le moltissime ipotesi, alle diverse norme sui carichi fiscali di
famiglia in tema di imposte dirette; sul trattamento fiscale dell'impresa familiare; sulla nozione
di nucleo familiare in tema di determinazione sintetica del reddito o in tema di abitazione
principale nei tributi locali; sulle agevolazioni in tema di piccola proprietà contadina), poiché gli
interventi del legislatore risultano modulati in modo differenziato, a seconda dei casi presi in
considerazione e dei singoli interessi di volta in volta perseguiti.
4.6.3.- È appena il caso, infine, di rilevare che il tertium comparationis indicato dal rimettente
nell'art. 7, comma 1, lettera b), del D.Lgs. n. 346 del 1990, come modificato dall'art. 69, comma
1, lettera c), della L. n. 342 del 2000, relativo alle aliquote dell'imposta sulle successioni e
donazioni differenziate in ragione del grado di parentela e di affinità, non costituisce idoneo
termine di raffronto, trattandosi di norma già "soppressa", in quel momento, dalla stessa L. n.
383 del 2001. Ciò assorbe ogni altra, pur possibile, considerazione.
4.7.- In conclusione, non è ravvisabile, in relazione all'art. 13, comma 2, della L. n. 383 del
2001, una lesione del principio di eguaglianza: le situazioni e le rationes delle normative poste
in comparazione risultano, infatti, eterogenee, sia intrinsecamente, sia in rapporto con la
fattispecie del giudizio principale (ex plurimis, sulla necessaria omogeneità dei termini da porre
a raffronto, sentenza n. 236 del 2017).
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, della L.
18 ottobre 2001, n. 383 (Primi interventi per il rilancio dell'economia), sollevata, in riferimento
agli artt. 2, 29 e 31 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale del Molise con
l'ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 2, della L.
n. 383 del 2001, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dalla Commissione tributaria regionale
del Molise con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio
2020.
Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2020.
Avv. Antonino Sugamele

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